Con la sentenza C-485/24 dell’11 dicembre 2025, pronunciata su rinvio pregiudiziale della Cour de cassation francese, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha fornito importanti chiarimenti sull’interpretazione dell’art. 6 della Convenzione di Roma del 1980 (art. 8 regolamento Roma I) in materia di legge applicabile ai contratti di lavoro. La decisione riveste un rilievo particolare per le imprese multinazionali e, soprattutto, per i settori caratterizzati da mobilità transnazionale dei lavoratori, come quello dei trasporti.
Il caso riguardava un conducente assunto da una società di trasporti lussemburghese, il cui contratto prevedeva l’applicazione della legge del Lussemburgo. Nel corso del rapporto, tuttavia, l’attività lavorativa si era progressivamente concentrata in Francia, dove da ultimo il lavoratore aveva svolto oltre la metà delle proprie mansioni. A seguito della riduzione dell’orario proposta dal datore di lavoro e del successivo licenziamento, il lavoratore ha adito i giudici francesi. Dopo un primo rigetto, la Corte d’appello di Digione ha ritenuto applicabili le norme imperative francesi, qualificando la risoluzione come licenziamento privo di giusta causa.
Sappiamo che la Convenzione di Roma limita la libertà di scelta della legge applicabile ai contratti di lavoro, in quanto tale scelta non può avere come effetto quello di privare il lavoratore della tutela garantitagli dalle disposizioni imperative della legge che sarebbe applicabile in mancanza di scelta. Al fine di determinare la legge applicabile in tale ipotesi, essa prevede due criteri di collegamento: quello del Paese nel quale il lavoratore svolge abitualmente la propria attività oppure, in mancanza, la legge del Paese in cui è situata la sede dell’impresa che ha assunto il lavoratore.
Tuttavia, secondo la Corte, tali due criteri di collegamento non trovano applicazione quando, dall’insieme delle circostanze, risulta che il contratto di lavoro presenta collegamenti più stretti con un altro Paese, nel qual caso è applicabile la legge di quest’ultimo. Il fulcro della sentenza risiede, dunque, nella determinazione della legge applicabile attraverso la valutazione di tale criterio correttivo, da compiersi nel momento in cui il giudice nazionale è chiamato a decidere, tenendo conto della concreta evoluzione del rapporto.
Secondo la Corte, nel valutare il collegamento più stretto il giudice nazionale deve procedere a un’analisi complessiva del rapporto di lavoro, considerando elementi quali il luogo in cui il lavoratore svolge la parte sostanziale della propria attività, il Paese in cui versa imposte e contributi previdenziali, il sistema di sicurezza sociale applicabile e l’ultimo luogo di lavoro abituale. Anche se ciò può comportare l’applicazione successiva di normative imperative diverse nel corso del medesimo rapporto, tale effetto è ritenuto compatibile con l’obiettivo primario della Convenzione di Roma: garantire la migliore tutela possibile al lavoratore, quale parte debole del contratto.
Sul piano operativo, la sentenza conferma il carattere dinamico della legge applicabile ai contratti di lavoro transfrontalieri. Le imprese non possono limitarsi a individuare la legge regolatrice al momento della stipula, ma sono chiamate a monitorare nel tempo l’evoluzione concreta dell’attività lavorativa. Un mutamento durevole del “centro di gravità” del rapporto può infatti imporre l’applicazione di un diverso ordinamento imperativo.
In conclusione, la Corte afferma che, quando il luogo di lavoro abituale si sposta stabilmente in un altro Stato membro, tale circostanza deve essere valorizzata attraverso il criterio del collegamento più stretto, demandando al giudice nazionale la valutazione complessiva delle circostanze del caso. Il principio rafforza la tutela del lavoratore mobile e impone agli operatori economici e giuridici un più elevato livello di attenzione nella gestione dei rapporti di lavoro transnazionali.




